Cosa ci fa un’archeologa in mare. Pesca.

Il connubio archeologo/a (terra) -pescatore (mare) ha un che di strano anche solo nel pronunciarlo, soprattutto quando l’archeologo/a non sta a perlustrare il fondo del mare ma lo osserva da terra o dalla sua superficie.

Del resto cosa c’è di più antico del mare. E quindi cosa può attirarmi a se più di quel moto eterno, cupo, eppure pieno di vita e di cose passate insieme.
Il mio sogno ricorrente da quando non ero più ‘alta’ di un tonno è nuotare sott’acqua e vedere relitti, animali marini, e pure …(direte voi: “che c’entra”? C’entra) pure una corona d’alloro.

La corona d’alloro è ciò che ha impressionato la mia mente di bimba quando venivo a guardare il palio remiero d’agosto, e ogni volta che in omaggio al mare ne veniva gettata una in acqua io pensavo ai caduti in quel mare  come persone che fluttuavano al di sotto della superficie, e pensavo pure che planasse loro in testa, a spregio involontario dei vivi che li volevano onorare; e così nei sogni poi ritrovavo quella stessa corona che a mio parere per forza doveva ancora trovarsi lì nei fondali con tutti i suoi ninnolini dorati ad abbellirla. Puarelli, gli omaggi postumi hanno sempre qualcosa di molto triste soprattutto agli occhi di un bambino.

Negli scavi mi imbatto spesso in ossa, umane o animali, e quando trovo le rare tracce di un pesce (si deteriora molto facilmente come è ovvio) lo raccolgo con cura per gli studi a seguire. Una pecora….persino un cervo non mi emozionano quanto una conchiglia di mare. E confrontarmi con me stessa, o con un collega che rinviene chele di astice ben più grandi del normale o patelle di dimensioni ormai inesistenti, è rientrare in quel sogno e immergermi nel mare e pensare a come era. Un tuffo, nel passato. Che ridiventa tra le mani presente.

Ebbene conchiglie, carapaci marini e ‘lische di pesce’ (vertebre in realtà, o palati ossei) attirano la mia attenzione per i due ovvii motivi citati sopra: li studio come archeologa e li studio come pescatrice. La prima peculiarità mi permette di amarli per il loro passato e il loro consumo, la seconda mi fa porre domande sul chi e come li hanno pescati, e rido delle scorpacciate che talvolta le tracce ci testimoniano  in maniera così evidente. Ora rinvenire gran quantità di gusci (se pur d’ostrica) presso popolazioni costiere non meraviglia più di tanto, ma quando montagnette di patelle si trovano accumulate presso il focolare di un sito a notevole quota e distanza dal mare e da corsi d’acqua (ricordiamo i bivalvi d’acqua dolce oggi non più consumati almeno in Italia) ecco che le domande si affollano nella mente rincorrendosi una ad una, trovando talvolta risposta.

In altra occasione, se mi e vi andrà, racconterò degli ami degli ‘antichi’, ma in maniera semiseria e informale, perché per  gli scritti scientifici il posto è altrove, e almeno qui mi piace ‘ruzzare’.

Arrivederci dunque, pescatori/rici. E lasciatemi qualcosa da ritrovare poi.

Alessandra La Fragola

Photo: by Janek Pfeifer

Ale
Che dire, se negli anni ’70, d’estate, qualcuno vedeva una bimba solitaria con cappellino marinaro seduta sul bordo di un vecchio pontile di legno presso l’Arenella di Portovenere, con una lenza in mano, ero io. Non ricordo quando ho cominciato, ma a 7 anni per certo inseguivo babbo sott’acqua, lui a pesca col fucile, io dietro col retino imperterritamente convinta di riuscirvi anche così. Ormai è storia (vecchia) che in assenza di lenza e retino mi arrangiavo pescando piccole bavose di scoglio anche col sacchetto del bondì, doverosamente divorato prima. Per molti anni ho rilasciato tutte le prede, poi sono diventata ‘cattiva’ quando le dimensioni loro e mie sono aumentate. Ho avuto pochi ma magnifici maestri, che, bontà loro, mi portano appresso: pare io porti bene. Prediligo la pesca col vivo in mare, a bolentino traina e scarroccio; per poco (anno con ghiaccio sottile) mi è sfuggita la pesca nei laghi del Nord, ma ‘ce l’ho qui’...devo ritentare. Non amo descrivere tecniche (che lascio agli esperti) ma sensazioni. Per il resto sono archeologa.

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